Ci sono luoghi in cui è sufficiente esserci per catturare tutte le emozioni; ci sono luoghi in cui non basterebbero mille parole per descriverli; ci sono luoghi che hanno bisogno di essere raccontati, come Terezìn.
La fortezza di Terezìn è stata costruita dall’Imperatore d’Austria Giuseppe II per difendere Praga alla fine dell’Ottocento in onore della madre. Nel 1942, per volere di Heydrich, la “Fortezza piccola” diventa una prigione per gli oppositori cechi e la “Fortezza grande” un ghetto per gli ebrei in attesa di essere trasferiti nei campi di sterminio.
Il campo divenne successivamente “campo di propaganda” per eludere i danesi della Croce Rossa Internazionale che nel ’43 giunsero alla fortezza di Terezìn per controllare le condizioni del campo. Grazie ad un percorso prestabilito, i tedeschi mostrarono un campo dove si andava a teatro, si giocava a carte e si stava bene. Tutto di facciata.
Vedendo le reali condizioni in cui vivevano i prigionieri e gli abitanti del ghetto ci si imbatte nella verità: lavoro estenuante ogni giorno anche fino a 14 ore, scarsa igiene, epidemie, persone lasciate morire di fame e di freddo. A bocca aperta ci troviamo a pensare a come sia possibile essere trattati come bestie, magari una coperta in più, magari più spazio, magari più cibo.
Come se garantire una doccia calda e una coperta bastassero a giustificare la barbarie di strappare dalle proprie case, dalle proprie famiglie, dalle proprie vite migliaia di persone per costringerle a soffrire e a morire.
Terezìn deve essere raccontata per essere capita e una volta giunti al termine del racconto non resta che riflettere e posare un garofano bianco vicino a una tomba, a un albero, ai binari del treno.