REGGIO EMILIA - TEREZIN  2016

Redazione degli studenti, Cracovia 2015
REGGIO EMILIA - TEREZIN  2016

Jaddy was here

02.03.2015 |
Asia Barbieri – 4T Istituto Motti

Chiunque entri nel campo degli uomini di Auschwitz II-Birkenau può trovare Jaddy.

Jaddy si trova nella terza baracca, sul lato sinistro, su una delle travi portanti; lo si potrà vedere inciso contro il legno scuro, spiccherà chiaro contro i colori spenti di quella che è stata la casa, la stalla delle migliaia degli uomini a cui non è stato concessa la vita – tutti gli uomini che hanno subito la decisione finale.

“Jaddy was here” è un graffito lasciato da un visitatore la cui identità non è nota; non è nulla di realmente degno di nota, nemmeno lontanamente paragonabile alle centinaia di scritte che riempiono le pareti delle capanne del campo delle donne, ed è proprio per questo che è ben più rilevante nella sua banalità. La stessa banalità che ha permesso un senso di estraneazione inconscio ma palpabile davanti alla tragedia umana, risultando nella categorizzazione del dolore e della follia e dell’ingegno umano.

L’immagine che abbiamo del Grande Dittatore, il quadro che abbiamo dipinto nello scenario collettivo di Adolf Hitler, è quella di qualcuno che si avvicina all’idea di uomo ma che la ripugna, che dalla sua scrivania decretava l’eliminazione di una categoria storicamente non gradita alla Germania alla ricerca di un ideale che lui stesso non rappresentava. E rifiutiamo la semplice constatazione che lui stesso era tanto uomo quanto potrebbe esserlo un nostro familiare; non ricordiamo le foto che lo ritraggono con un volto sorridente o in compagnia di amici. Come società abbiamo standardizzato e dato una forma appropriata alla malvagità – ma non al dolore.

I negazionisti sono esistiti fin da quando la realtà della soluzione finale ha visto la luce; non si esita a definirli tanto pazzi quanto coloro che hanno permesso che ciò avvenisse. Tuttavia il rifiuto ha più sfaccettature di quella palesata dall’odio. Il rifiuto è l’incredulità.

L’incredulità è l’incapacità di dare un nome, un volto ed una storia ai milioni di persone le cui vite sono state strappate da uomini non differenti da loro, uomini che di diverso dalle vittime avevano solo un nome ed una divisa; è l’estraniarsi davanti a ciò che resta delle camere a gas e dei forni crematori, guardando troppo rapidamente i cumuli di scarpe dietro le vetrine e le tonnellate di ciocche di capelli conservate dietro ad un vetro. Ciò che è Auschwitz davanti agli occhi di un turista scade nell’ovvietà di un semplice museo, e di null’altro. Ciò che rappresenta viene ridotto ad una foto davanti al cancello che ha significato inferno per un intero popolo, seguita da un pranzo ad un ristorante.

La mancanza di reazione è la malattia di colui che è incapace di relazionarsi con un passato non sgradito, ma che bensì fallisce nel provocare empatia – ed un sentimento di distacco tale non può che implicare una noncuranza, una scontatezza nelle riflessioni che porta all’annullamento dello primario motivo dell’esistenza della testimonianza. Il puro disinteresse è esso stesso negazionismo; una sottile ma concreta dimostrazione dell’indifferenza verso il dramma umano, che si trasforma in nient’altro che puro materiale didattico, freddo quanto la voce di coloro che hanno urlato per far sentire la propria voce.

Voce che scompare nello stesso momento in cui non viene ascoltata.

Uomini e donne che si sono visti strappati dalla dignità della vita stessa giacché essa non era considerabile tale, la mera sopravvivenza paragonabile a quella di un carro per il bestiame; uomini e donne che si sono visti strappati del ricordo di sé; uomini e donne che hanno gridato nel nome di una memoria che è stata martoriata dal disinteresse per il passato.

E forse, quando camminando sulla banchina di Auschwitz II-Birkenau, quando guarderà quell’unico vagone merci, Jaddy saprà di essere stato lì; ma tutti gli altri – anche loro erano stati lì.

 

  • La banchina ad Auschwitz-Birkenau, foto di Andrea Mainardi
    La banchina ad Auschwitz-Birkenau, foto di Andrea Mainardi