Cammino eppure ogni passo è doloroso, straziante; il rumore provocato dai miei passi è insopportabile; guardo a terra e una distesa di facce urlanti mi guarda con occhi vuoti e al tempo stesso pieni di angoscia.
Cosa fare? Tornare indietro? Eppure la guida ci ha detto di proseguire, di arrivare fino in fondo al corridoio perché solo così avremmo capito. So soltanto che non vedo l’ora di uscire da lì, di smettere di calpestare quei visi grandi e piccoli. Vorrei poterli aiutare e liberarmi da quel senso di colpa che mi pervade…
Ovunque mi giro tutte quelle bocche aperte sembrano gridarmi: “cosa pensi di fare? Non puoi continuare a calpestarci senza ritegno”, ma cosa potrei fare d'altronde? Il passato rimane tale e non si può fare nulla per cambiarlo, non posso aiutare quelle persone perché ormai non ci sono più, svanite nel nulla a causa della mente perversa di uomini, che hanno voluto annullare l’esistenza di milioni di persone.
Foto: particolare della stanza “Foglie morte”
“Foglie morte” così si chiama la stanza dove sono state disposte queste facce di ferro semi-arruginite, opera dell’artista israeliano Menashe Kadishman.
Ci troviamo all’interno del Museo ebraico di Berlino e sembra di essere in un mondo parallelo. Sono pervasa da un’ondata di emozioni che non riesco a contenere, eppure pensavo che mi sarei sentita così solo durante la visita al campo di concentramento. Invece, circondata da foto in bianco e nero che mostrano le vicende terribili degli anni dell’Olocausto, mi rendo conto del livello di disumanità a cui l’uomo si è voluto spingere.
La maggior parte delle foto e delle storie che si possono leggere riguardano vite di ebrei e lettere in cui la speranza non vuole lasciare spazio alla resa.
La guida ci fa attraversare lunghi corridoi bianchi e camminando lungo l’asse dell’Esilio giungiamo al Giardino dell’Esilio. Oltre alla stanza delle “Foglie cadute” anche il Giardino dell’Esilio mi ha lasciato una sensazione di straniamento e di disagio. Il giardino posto nella superficie esterna del museo è composto da 49 colonne di 6 metri; il visitatore è invitato ha passare tra queste colonne in solitudine e a riconoscere le emozioni che scaturiscono da questa esperienza: paura, smarrimento, mancanza di equilibro e panico … Libeskind, architetto del museo, ha reso intenzionalmente il luogo tale da destare nello spettatore tutti questi stati d’animo facendolo sentire sopraffatto e in una sorta di apnea, di prigione, come se fosse in un grande labirinto in cui la via d’uscita è impossibile da raggiungere.
Altro elemento sconvolgente riguarda tutti gli elementi che disposti attorno a quest’installazione hanno un valore simbolico molto vasto: il numero delle colonne serve a ricordare la data di nascita dello Stato di Israele, 1948, e un’altra colonna quella centrale rappresenta Berlino e presenta all’interno del terreno proveniente da Gerusalemme; gli alberi tutt’intorno rappresentano la pace e la speranza di un ritorno in patria. Lo spettatore prova - anche se su scala infinitamente ridotta - le stesse cose che hanno sopportato gli ebrei esiliati e senza più una propria patria.
L’asse della continuità, che rappresenta il permanere degli ebrei in Germania nonostante l'Olocausto e l'Esilio, è collegato ai due corridoi principali e la sua lunghezza è emblematica del periodo di attesa mista a speranza, paura e angoscia degli ebrei.
Attraverso l’asse della continuità si arriva ad un altro corridoio: l’asse dell’Olocausto. Senza dubbio però ciò che più mi ha sconvolto è stata la Torre dell’Olocausto, raggiunta percorrendo proprio quest’asse. Si tratta di una stanza la cui porta è molto pesante e spessa, ma una volta dentro tutto il mondo sembra caderti addosso. Questo lo si percepisce non perché ci siano troppi oggetti o ricordi degli ebrei e delle loro sofferenze; al contrario la stanza è vuota, un vuoto rumoroso e assordante più delle lastre di metallo delle “Foglie cadute”. Un silenzio così forte e così intenso che subito comprendi: qui è dove sono finiti tutti gli ebrei uccisi, calpestati, umiliati e massacrati; dimenticati dall’umanità, morti per nulla e nel nulla finiti.
Libeskind ha voluto essere certo che ciascun visitatore si portasse a casa la consapevolezza di ciò che è accaduto e del dovere che ognuno ha di non dimenticare per non ripetere, per ribellarsi alla disumanità.