Giovedì ventisette febbraio ci siamo recati presso il memoriale del campo di concentramento di Ravensbruck, che dista da Berlino circa cento chilometri.
Nasce nel 1939 come campo di concentramento femminile, successivamente ingrandito a causa dell’elevato numero di deportate in gran parte polacche e francesi. Subito dopo la fine della guerra fu liberato e occupato dai soldati sovietici, i quali hanno venduto le baracche per riutilizzarne i materiali.
L’ambiente che ci ha accolto era grigio, aspro, vuoto, come se mancasse qualcosa. In tutta la sua estensione presentava solamente pochi alberi, i quali sono stati piantati dai soldati nazisti con l’intento di abbellire il campo. Le foto dell’epoca non mostrano queste piante, che sono diventate un chiaro simbolo del passare del tempo e sono molto in contrasto con le pietre nere come il carbone che coprono il terreno in tutta la sua lunghezza e concorrono a creare quell’atmosfera triste. Sono rimasti intatti solo l’ufficio – dove è collocato l’archivio anagrafico dei detenuti – della guardia, la fabbrica, le prigioni e il forno crematorio, oltre alle villette circostanti che erano destinate ai membri delle “SS”, di cui facevano parte anche delle donne.
Varcando l’entrata principale ormai priva della scritta conosciuta “Arbeit Macht Frei“ presente in tutti i campi di rieducazione, le prime cose che ci hanno colpite sono state la dimensione sconfinata e il colore che regnava: nero. Ciò infondeva un senso di oppressione, che rendeva la visita molto faticosa. La visita, dal canto suo, è stata agghiacciante. La guida ci ha spiegato – attraverso spiegazioni, foto e testi di sopravvissute – come hanno disumanizzato le persone che giungevano al campo, persone normali, persone come noi, persone che avevano un prospero futuro, persone che avevano un bagaglio in mano e restavano senza niente, persone che entravano in un ufficio con un nome e uscivano con un numero.
Agghiacciante è stato camminare sui viottoli percorsi da migliaia e migliaia di detenute, respirare quell’aria densa e fredda, immaginare in che condizioni sono state ridotte persone come noi.
Più commovente e triste è stata la spiegazione di come veniva svolto l’appello, che rappresenta la massima disumanizzazione concepibile, perché era un gesto inutile. Le donne si svegliavano all’alba, si recavano all’esterno che ci fosse sole, pioggia o neve. Indossavano solo la divisa a righe, spesso ridotta in brandelli, mentre attendevano, a volte per ore e ore, che le guardie iniziassero l’appello o trovassero le eventuali detenute mancanti, perché svenute, morte o rimaste a letto. Qualche volta cercavano un pezzo di carta per ripararsi il petto dalla gelida aria mattutina.
Tutti i pezzi di un orrore che fanno riflettere, comprendere, cos’è veramente duro da affrontare nella vita e quanto siamo fortunati ad essere nati adesso, perché è anche grazie a tutti i deportati, i quali hanno lottato per la propria e futura libertà e la dignità umana, che oggi abbiamo un mondo migliore.