Mi ha colpito la duplice natura degli oggetti di Auschwitz I. In quanto tali, inanimati ma allo stesso tempo vivi, ultimi simboli di proprietà delle persone a cui appartenevano, che sarebbero poi stati sequestrati dai nazisti per andare a finire nel blocco chiamato Canada.
Erano anch'essi destinati ad entrare in un vortice di distruzione, un meccanismo volto all'annientamento dell'individuo all'interno di Auschwitz. Si cominciava col distacco forzato dalla famiglia, con la sua dispersione totale, passando per la cancellazione del nome, sostituito da un codice numerico, segno della perdita della dignità e della stessa vita. 6 milioni di identità diverse, con pensieri diversi svaniti nel nulla.
Ma quegli oggetti, anche se inanimati e impolverati, parlano e rappresentano persone di cui non sappiamo e forse non sapremo mai nulla: generazioni, famiglie, soggetti spazzati via di cui rimangono una fotografia scattata per caso, un pettine sporco, una distesa di lenti attraverso cui nessun occhio vedrà più niente, valigie mai più impugnate, capelli grigi invecchiati a cui non corrisponde più nessun volto. Tutto questo vuoto si riassume in un bambola spezzata dal vestito sgualcito, col viso sorridente benché staccato dal corpo.