Silenzio, intorno. Cielo grigio, pesante, brezza di morte. Un binario verso un bosco di betulle. Il nulla, tante volte calpestato. Il campo. Un vagone vuoto, serrato, che ha contenuto speranze deluse, inganni per nulla ameni. Stipati, annientati, chiusi alla vita. Terra, terra spoglia, brulla, fangosa, bagnata, mortifera, tremendamente matrigna. Pozzanghere. Acqua limacciosa, torbida come i nostri sguardi. Le punte accuminate del filo spinato. Ogni singola spina come conficcata dentro, negazione, rifiuto della libertà che è vita. Legno, baracche, vuoto, come i buchi di quelle latrine. Latrine comuni, letti comuni, in cui la dignità s'annulla, in cui la morte dell'anima precede quella dei corpi gettati nelle fosse comuni, in cui non si può restare uomini. Fino alle pietre ammassate del Krematorium, la fine senza possibilità di domande. Guardare per credere, senza capire; non piangere per non ricordare solo le proprie lacrime. Fiori bianchi, sul binario, tra le grate del cancello, debolmente incastrati, nudi nella loro fragilità, forti nel loro candore capace di spezzare per un attimo il silenzio. Uno galleggia nell'acqua stagnante, vivo in quell'aria di morte. Di nuovo, per sempre, uomini, nel ricordo fluttuante, delicato come il petalo di un fiore, ma piú duraturo del bronzo di quelle pietre senza nome.