REGGIO EMILIA - BERLINO  2014

Cartello stradale
Elaborazione - le proposte agli studenti

Tema di Asia Medici, IIC del Liceo Ariosto di Reggio Emilia

Visita al museo Ebraico di Berlino

A Berlino abbiamo avuto modo di trascorrere sei giorni incredibili; non solo per l’opportunità, di non poca rilevanza, di visitare una delle città più importanti d’Europa, ma anche per l’esserci avvicinati ad un tema tanto triste, quanto rilevante, della storia del ‘900: la Shoah. Partendo dal presupposto che ogni giorno trascorso nella capitale Tedesca è stato interessante e ricco di esperienze intense, vorrei incentrare la mia riflessione sulla visita al museo Ebraico. Inaugurato nel 2001, viene costruito dall’architetto Daniel Libeskind che, a mio parere, è stato in grado di creare un edificio di grande effetto dal punto di vista architettonico. Visto dall’alto questo appare come una linea a zig zag e, osservando attentamente, si nota che non vi sono finestre o porte visibili dall’esterno, cosa che crea un effetto di isolamento dallo spazio circostante. L'entrata al museo, caratterizzata da pareti e corridoi che si ampliano e si restringono continuamente, è stata intenzionalmente resa difficile e lunga, per infondere nel visitatore impressioni di sfida e di difficoltà che sono distintive della storia ebraica, e per creare un certo senso di disorientamento. Oltre a raccontare circa due millenni di storia degli ebrei in Germania, grazie ai tantissimi documenti presenti al suo interno, il museo è riuscito a coinvolgere e sensibilizzare noi ragazzi per spazi particolari al suo interno, ovvero la torre dell’Olocausto, il giardino dell’Esilio e un’istallazione davvero molto interessante chiamata Shalechet, Foglie Cadute.

La Torre è una struttura completamente vuota, buia, non climatizzata (dunque fredda d'inverno e calda d'estate), illuminata solo dalla luce del giorno che penetra da una stretta feritoia posta in alto. Il senso di isolamento e di oppressione che si viene a creare mi ha molto colpito, in quanto viene ricreata la condizione straziante che hanno dovuto subire gli ebrei, sebbene - per noi visitatori di oggi - in proporzione infinitamente minore. Lo sguardo viene inevitabilmente attirato verso l’unica sorgente di luce presente in quel luogo scuro, freddo, silenzioso. Quell’unica e flebile luce che penetrava sembrava essere una meta irraggiungibile: troppo in alto, troppo distante. Non si poteva far altro che guardarla con un senso di impotenza straziante.

Il Giardino dell'Esilio è una superficie esterna al museo, quadrata e circondata da 49 colonne di cemento alte sei metri, in modo tale che dall'esterno non si possa vedere nulla. Sulla sommità delle colonne sono stati piantati alberi di ulivo. Essi sono il simbolo della pace e della speranza di un ritorno in patria per gli ebrei; inoltre credo vogliano simboleggiare che come gli alberi riescono a mettere radici in spazi così impervi come la cavità di un pilastro, così anche coloro che sono esiliati in una lontana terra straniera possono trovare la forza per continuare a vivere in un'altra patria.

L’ultima istallazione è quella però che mi ha colpito di più: 10 000 volti in acciaio punzonato sono distribuiti sul pavimento dello Spazio Vuoto della Memoria, l'unico spazio vuoto dell'edificio di Libeskind in cui è possibile entrare. Camminare sui visi d’acciaio dalle espressioni straziate e disperate è stata un’esperienza che difficilmente potrò dimenticare. Quei volti tanto cupi, e freddi, e immobili, hanno come dato vita ad un triste lamento non appena mossi dai nostri passi. Un fragore metallico, stridente, ha pervaso la sala poco prima così silenziosa. Subito il sangue si è gelato nelle vene. Simile ad un coro di gemiti e pianti quel frastuono angosciante si è diffuso nella stanza. I volti in acciaio sembravano contorcersi sotto il nostro peso. E immersa in quel mare di metallo non ho potuto far altro che guardare gli occhi vuoti di quelle sagome gementi, chiedendomi per un’altra volta ancora come sia stato possibile che tutto ciò sia avvenuto. Chiedendomi come sia stato possibile trasformare migliaia di uomini in corpi ormai incapaci di gioire, proprio come quei volti che mestamente stavamo calpestando.