La seguente riflessione é stato elaborato durente il workshop "Parole sporche" dagli studenti del Liceo Moro con Lorenzo Guadagnucci ed Andrea Mastrangelo.
Che cos’è l’informazione? Personalmente penso si possa definire come un più o meno ampio insieme di dati che presi singolarmente non dicono nulla, ma che nella loro totalità forniscono un quadro completo di un accadimento o di un fenomeno. Detto questo, penso sia necessario riconoscere all’informazione la sua principale caratteristica, senza la quale il suo stesso significato perde di validità, essa è prima di tutto qualcosa di assolutamente neutro, deve esserlo, altrimenti si parlerebbe di opinione non di informazione. Tuttavia è facile notare come sia decisamente difficile descrivere un avvenimento in modo imparziale, in quanto il semplice accostare un aggettivo ad un sostantivo fornisce una visione di parte, non più la verità, quanto piuttosto un punto di vista che può essere condiviso o meno, frutto di un interpretazione. In considerazione di quanto appena detto, penso che il compito di un giornalista ( in generale di tutti coloro che si occupano della trasmissione di informazioni ), sia quello di riportare i dati nel modo più neutrale possibile, almeno nella descrizione di quanto accaduto non devono essere presenti punti di vista, che porterebbero il lettore a focalizzare la propria attenzione su di un particolare piuttosto che sul quadro d’insieme, limitandone così la percezione. L’alterazione di una informazione può essere dovuta sia ad omissione che ad eccesso di dati, ed è proprio questo nella maggior parte dei casi che accade, per esempio, parlando di omicidio o furto, i giornali ci forniscono spesso e volentieri troppi dati, o troppo pochi, è davvero necessario sapere tutto quello che ci viene detto? Che il criminale fosse francese, italiano, russo, iraniano, sessantenne, ventenne, musulmano, ebreo, cattolico, rende forse differente il fatto? Personalmente per rispondere a questa domanda penso sia necessario dividere il movente, dall’accaduto, perché se magari da un lato questi dati superflui ci portano a dare una seppur parziale giustificazione del fatto, dall’altro sempre di crimine si è trattato, non credo infatti si possa affermare che un furto compiuto da un italiano sia diverso dallo stesso fatto compiuto da un egiziano. Classificando come si tende a fare oggi i crimini non in base alla loro gravità, ma in base alla nazionalità di chi li commette, significa che la legge non è più uguale per tutti, significa sostenere che alcuni sono migliori di altri sulla base del fatto che sono nati in un posto diverso da questo, significa creare degli stereotipi negativi, significa discriminare. Ora provate a pensare a quante volte, sfogliando il giornale oppure guardando un servizio televisivo, voi abbiate letto oppure udito qualcuno dire “un RUMENO ha violentato…..” “un MAROCCHINO ha rubato……”, (questi sono solo esempi tra i tanti casi), e molto raramente dire “un ITALIANO…..”, avrete sentito dire “è stato commesso un furto“, ma raramente avrete sentito specificata la nazionalità del criminale se esso appartiene ad una certa area geografica, questo perché? Semplice, le persone sono portate ad addossare a qualcosa o qualcuno di diverso e di lontano elementi negativi, che andrebbero altrimenti ad alterare quell’apparente perfezione che le circonda, e che rende tutto quello in cui credono così cristallino e giusto (le persone in sostanza hanno paura del diverso). Così agendo tuttavia, si arriva ad identificare dati negativi con un particolare gruppo ristretto di persone, per esempio è noto che nell’immaginario collettivo odierno, quando si pensa ad un violentatore, si pensa subito ad un rumeno, un marocchino, ma difficilmente si associa qual crimine ad un francese o ad uno svedese, siamo noi stessi a creare gli stereotipi di cui tanto abbiamo timore. Non è quindi affatto giusto specificare la provenienza di un individuo solo in certi casi, quando “fa comodo”, o lo si fa per tutti o per nessuno, le persone non si possono classificare per provenienza o comunque secondo dati su cui non possono influire, le persone si giudicano per quello che sono e per le proprie azioni. Il giornalista ha il DOVERE morale e professionale di dare conto dei fatti, non di giudicarli, egli fornisce solo i dati, che gli altri interpretano e che permettono loro, ragionando, di arrivare ad una opinione, condizionare il modo di pensare degli altri, portandoli a credere a qualcosa di falso o vero solo in parte, è sbagliato ed è soprattutto ingiusto nei confronti di chi, magari in fuga da una guerra o dalla fame, approda nei nostri moli, solo per essere trattato come un animale mediatico, un capro espiatorio contro cui indirizzare tutta la rabbia dei cittadini. Il giornalista può anche dare la propria opinione riguardo un accadimento, ma solo dopo aver dato l’immagine più neutrale possibile di quanto accaduto, non si deve far passare un’ opinione per cronaca.
di Mattia Bertolani, Istituto Moro Reggio Emilia