Il viaggio

Tema di Arianna Chierici

12.04.2013 

Tema di Italiano e Storia di Arianna Chierici II C


Viviamo in un mondo che corre. Avanza ad una velocità tale da costringere chi lo abita ad arrancare nel duplice tentativo di restare al passo e di  tenersi alla larga dal timore che – in caso di caduta durante il percorso – sia impossibile rialzarsi e ritrovare tutto come lo si era lasciato.

La nostra è una società frenetica: ogni giorno ciascuno è sottoposto ad innumerevoli sollecitazioni diverse, infinite scariche di stimoli – visive, uditive o tattili – dalle quali veniamo indirizzati, orientati, ma anche  ingannati e illusi.

La prolungata esposizione a tali fattori non fa che portarci a volerne sperimentare di nuovi, sempre più impressionanti e spettacolari, in una dipendenza che nessuno ha interesse a riconoscere come tale. Ogni individuo si lascia nutrire dai propri stimoli, senza riuscire a sfamarsene mai del tutto.

L’aspirazione più comune è lasciare un segno del proprio passaggio sulla terra, “sbracciandosi” nei modi più ingenui e disperati nella spasmodica ossessione di essere notati dall’universo, nell’illusione che quando moriremo non saremo morti sul serio; che potremo sfuggire all’oblio.

Nel mondo che corre non ci è mai dato di rallentare il passo per ammirare le cose che hanno meravigliato la nostra specie per centinaia di anni; manca il tempo di sperimentare un’emozione, e perfino di pensare – cosa che nessuno ha interesse ad ammettere.

L’esistenza è leggera come chi la conduce: niente di abbastanza sconvolgente da colpirci, niente che ci appartenga e niente che osi sorpassare la facilità del momento e la superficie.

Il nostro mondo corre, stordendoci con la sua velocità e il suo baccano. Anziché lamentarcene, gli siamo grati: nessuno ha interesse ad ammettere che la narcotizzazione generale in cui siamo immersi è un ottimo pretesto per sfuggire da se stessi.

Nonostante questo, esistono realtà che obbligano – con imponente prepotenza – a fermarsi. Luoghi dove sembra che il tempo sia sospeso, lontani anni luce dal mondo che corre eppure così parte di esso. Uno di quei luoghi è Terezin, fortezza minore.

Acqua, erba e mattoni non sono altro che il contenitore di ciò che realmente la rende ciò che è. Di Terezin non rimangono i numeri – l’altezza, la lunghezza e lo spessore delle mura, l’estensione del tunnel.

Di Terezin rimane il silenzio. Non del genere del vuoto dell’assenza. Il genere di silenzio di quando tutti urlano. A tratti ci mette a disagio, cerchiamo di schermircene; perché non è semplice fermarsi – ancora con il fiato corto dalla corsa – e guardarsi intorno.

Si sa quanto misurano le mura e il tunnel, da dove deriva il nome “Terezin” e per cosa la fortezza veniva usata in precedenza. Eppure non esiste un dato in grado di quantificare il silenzio, né atto a definire il motivo per cui sembri così affollata da opprimere, nonostante sia deserta.

Ed è proprio la pace tormentata di quel luogo – con i suoi contorni semplici, fatti di terra, cielo e mura – a non lasciare scampo nemmeno a chi appartiene ad una società come la nostra, ed è così abituato alla teatralità artificiale in cui siamo immersi da rimanere spiazzato di fronte alla scarna semplicità del dolore.

Di Terezin resta questo, insieme ad un fiore bianco abbandonato lungo un rivolo d’acqua: non puoi sapere dove andrà, ma sei certo che andrà da qualche parte. Come scrive John Green in uno dei suoi romanzi più celebri “ci sono infiniti più grandi di altri infiniti”.

Quando si parla di “Viaggio della Memoria”, non si riflette mai davvero sul significato di “memoria” in una società come la nostra. Si aspira ad essere ricordati con una tale intensità da perdere di vista tutto il resto. Come il senso di responsabilità, ad esempio, ormai percepito come un vincolo che frena la libertà: quella libertà di cui tanto ci vantiamo, e che a nessuno conviene ammettere che sia venuta meno da quando correre è diventato tutto ciò per cui viviamo e moriamo.

Siamo una ferita infetta, e non è semplice sanare la mentalità di una generazione. Eppure, luoghi come Terezin possono rivelarsi come insospettate gocce di antidoto. La memoria non trova il suo inizio e la sua fine nel ricordare. La memoria c’è quando si assimila qualcosa e lo si rende parte di sé. È quello che ci rende le persone che siamo e ci distingue da tutti gli altri.

Terezin permette di rallentare la frenetica corsa contro il tempo senza vincitori a cui ognuno è iscritto dalla nascita, e non si limita a permanere in noi come fantasma di un orribile luogo di morte. Terezin è viva nella memoria di coloro che l’hanno  vista, improvvisati intermediari tra la frenesia e la quiete, lo stordimento e la realtà, la corsa e la fermata.

Pretendere che ciò sia sufficiente a salvare tutti dal proprio silenzio mentale – vero e proprio silenzio dell’assenza, in questo caso – è pretenzioso ed irrealizzabile.

Tuttavia, buona parte dei più preziosi cambiamenti dell’umanità hanno visto la loro origine nel piccolo impegno dei singoli. Come scrive Dietrich Bonhoeffer, “Le grandi prestazioni, richiedono tempo”.