REGGIO EMILIA - TEREZIN  2016

REGGIO EMILIA - TEREZIN  2016

"Il nostro ricordo è la loro condanna"

22.02.2014 |
Aisha


Non so bene cosa scrivere, né quali parole usare per cercare di esprimere al meglio quello che ho provato visitando Sachsenhausen e in generale partecipando al Viaggio della Memoria. Desideravo da tanto poterlo fare e finalmente sono qui a Berlino, la capitale, e non mi sembra neanche vero, nemmeno dopo due giorni. Ho letto alcune storie nel libro “Perché i vivi non ricordano gli occhi di…” e ci sono state due frasi che mi hanno colpito molto, una della storia di Tina Boniburini, che dice che il nostro ricordo è la loro condanna e l’altra di Fermo Angioletti e Mario Baricchi. Questa seconda frase esprime il senso della memoria e cioè che ricordare, ricordarsi anche di chi non è nei libri di storia è un passo in più, un passo in avanti verso un qualcosa. Conoscere è sempre un passo avanti, più conoscenza si ha e più si matura. Se non ci si ricorda di loro è “come morire due volte”.

Il nostro ricordo è la loro condanna. È una frase che all’apparenza può essere cattiva, ma invece è così che deve essere. Dobbiamo ricordare per far sì che non sia stato un atto malvagio da cancellare e basta. È successo e basta e ora tocca a noi evitare che accada di nuovo e dobbiamo partire dalla memoria, ognuno di noi è dotato di essa e bisogna saperla sfruttare. Penso che l’essere umano abbia un ottimo potenziale in sé, per quanto macchina fallata sia. Bisogna saper usare nel modo giusto le nostre armi. Ci sono parecchi concetti che sono difficili da spiegare e soprattutto sono troppo soggettivi per poter dare loro una definizione.
 

Ho provato tante volte a cercare di capire, di percepire anche un solo sentimento di quello che hanno dovuto provare i deportati, ma non ci riesco. Riesco solo a capire che sia stato terribile, ma non le emozioni, quelle non posso sentirle. E ho provato tante altre volte a darmi una risposta alla domanda: “Perché non si sono ribellati? Erano di più loro, perché non hanno provato a fare qualcosa?”. La risposta è logica e angosciante: non avevano più un’identità, una dignità, non potevano farlo. Al giorno d’oggi siamo abituati bene, stiamo bene e siamo fortunati ad essere nati in questo periodo, noi ci possiamo avvicinare con la mente e con il pensiero alle situazioni avvenute, ma non con il cuore. Almeno, non provando le stesse emozioni loro.
 

Mi ricordo di una signora di Roma, Mirella Stanzione, che alla testimonianza disse che una ragazza che era con lei era stata chiamata da un generale delle SS mentre era a “lavoro” ed era andata lì con tanta paura che alla notizia della madre morta lei tirò un sospiro di sollievo. Ci ho messo due secondi per capire la situazione. Le persone deportate, chi ha sofferto tutto quello che è successo era davvero al limite, sul baratro. Ma non hanno mollato, fino all’ultimo delle loro forze loro erano lì che venivano torturati per niente. Non hanno mollato, e come loro anche i partigiani. La Resistenza, un’azione che mi ha affascinato parecchio. Mi venivano i brividi a leggere le storie di quei partigiani che dicendo di no e seguendo le loro idee sono andati in contro alla morte. E se penso che oggi una cosa così non è più possibile, perché è cambiato tutto, perché ormai la mentalità si è ambientata allo stile di vita dei giorni nostri e non credo ci siano ancora così tante persone pronte a morire per i loro ideali. Si cerca sempre di evitare la morte ma non la malattia. E dovremmo evitare quella prima di tutto.